Relazione del Presidente della Giuria

Cari ragazzi, Autorità, gentili Signori e Signore;

Una volta ancora questa grande aula della pieve di Santa Giustina, cuore antico di Monselice, si è riempita di scolari, di studenti, di docenti, di studiosi, di amici, del premio Brunacci, di persone che anche quest’anno hanno voluto essere presenti e prendere parte ad una festa che si rinnova puntualmente da venti anni. La Giuria non può che rallegrarsene e manifestare grande soddisfazione. E’ raro, anche in tempi di stravaganti iniziative tendenti ad attrarre pubblico, che un avvenimento culturale per molti versi tradizionale come il premio Brunacci, sia circondato da tanto consenso e mobiliti tante energie: la scuola, l’Università, il mondo della ricerca e quello della creazione artistica e letteraria. Grazie dunque a voi e grazie all’Amministrazione comunale di Monselice che, oggi rinnovate, continua ad offrire il suo fondamentale sostegno al Brunacci. Un grande saluto rivolgo al Sindaco e in particolare all’Assessore Belluco, che è subito entrato con entusiasmo nello spirito del Premio. A nome della Giuria desidero ricordare anche il suo predecessore Riccardo Ghidotti che si riprometteva essere qui e al quale inviamo i migliori auguri di pronta guarigione. Per l’edizione 2004 sono giunte complessivamente 51 opere: 13 relative alla scuola dell’obbligo, 5 tesi di laurea, 17 pubblicazioni riguardanti il Padovano, 16 la storia Veneta. La Giuria, riunitasi il 28 settembre più degli altri anni si è trovata a discutere sulla ricerca presentate da alunni e studenti della scuola dell’obbligo. Sembra a noi che col tempo sia aumentato l’intervento degli insegnanti nella elaborazione dei testi e che l’uso delle tecniche informatiche, di per sé lodevole, rischi però di comprimere la parte riservata alla scrittura, alla ricerca che non sia pura copiatura, al corretto svolgimento in lingua italiana degli argomenti prescelti. La spontaneità in certi casi vien meno. Nell’assegnare i premi la Giuria ha dunque inteso valorizzare soprattutto le ricerche nelle quali più chiaro e semplice risultasse l’apporto personale di ragazzi e ragazze. Sempre buono e talora eccellente è apparso il livello delle tesi di laurea, spazianti dalla filologia alla storia, dalla paleografia latina alla storia dell’arte e della cultura discusse presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Padova e di Trento e nei dipartimenti di Romanistica, Italianistica, Storia, Storia delle arti visive e della Musica di quelle Università. Si tratta ancora di tesi del vecchio ordinamento quadriennale la cui capacità di produrre risultati di eccellenza è indescrivibile. La riforma detta del 3+2 degli ordinamenti didattici è ancora ai primi passi. Restiamo in attesa . Certo il Premio Brunacci sarà un ottimo osservatorio per verificare, in relazione agli studi umanistici, l’esito della riforma proprio sul piano dell’eccellenza tanto spesso invocata e cercata con soluzioni e scorciatoie esterne all’Università. Tra le pubblicazioni riguardanti il Padovano oltre all’opera vincitrice, dedicata all’Università di Padova nel Rinascimento, la Giuria ha voluto segnalare altri due ottimi lavori: quello curato da Piero Del Negro (studioso già premiato in passato) su I collegi per studenti dell’Università di Padova. Una storia pluriennale, edito nel 2003 dalla Signum Editrice di Padova, e quello di Maria Teresa Zanardi, su La biblioteca del convento di San Giacomo da Monselice, pubblicato dalle Edizioni Lief di Vicenza sempre nel 2003.

A nome dei colleghi esprimo le più vive congratulazioni agli autori e sincero apprezzamento per il lavoro compiuto.

Negli anni il Premio Brunacci ha ampliato sempre più gli ambiti culturali ai quali rivolge la propria attenzione. Il nucleo di interesse per la storia veneta è rimasto l’asse portante, ma l’orizzonte si è via via dilatato verso una più ampia concezione di storie come storie della civiltà nelle sue più varie espressioni culturali, artistiche, religiose e anche come storie del territorio e dell’ambiente.

Quest’anno proprio ad un bel lavoro sulle molte geografie del Delta del Po, sulla costruzione attraverso i secoli di quel territorio aperto al cambiamento sotto l’azione del fiume, del mare, della terra, degli uomini, è andato il Premio riguardante la storia veneta. Ma anche in questa sezione, a testimonianza di una confortante vitalità e validità di studi e ricerche nel Veneto e sul Veneto, la Giuria ha ritenuto di segnalare due opere: una di Aulo Donadello dedicata al Lucidario. Volgarizzamento veronese del XIV secolo, Roma. Padova, Editrice Antenore, 2003; l’altra di Francesco Vallerani, dal titolo Acque a nordest. Da paesaggio moderno ai luoghi del tempo libero, Verona, Cierre Edizioni 2004.

Anche a questi autori vanno i più vivi rallegramenti dei componenti della Giuria e un plauso convinto.

Ho sempre rivendicato con orgoglio al Brunacci la vocazione ad unire le generazioni che si affacciano alla vita con quelle più anziane che trasmettono loro il testimone di una profonda passione intellettuale e un patrimonio inestimabile di esperienza e di conoscenza.

Mai forse come quest’anno è data l’occasione di realizzare quest’incontro nella pienezza dei suoi significati. Dal suo Altopiano Mario Rigoni Stern al quale è andato il premio della Giuria “Sigillo Monsilicis” per la civiltà veneta ha fatto amare la sua gente, ma soprattutto ha narrato per noi e per le generazioni future la dignità dell’uomo e la bellezza della terra nella quale è stato chiamato a vivere. Non solo oggi lo pensiamo, ma lo ringraziamo per il dono che ha fatto a noi e agli uomini del nostro tempo.

Premio libro veneto

Logiche di terre e acque. Le geografie incerte del delta del Po

Cierre 2004

Premio libro padovano

Stefano ZAGGIA, L’Università di Padova nel Rinascimento: la costruzione del palazzo Bo e dell’Orto botanico

Marsilio 2003

Premio tesi di laurea

Roberta Frezza, I ternari trilingui di Matteo Correggiaio

Tesi di laurea in Filologia Romanza, discussa all’Università di Padova

con il prof. Furio Brugnolo nell’anno accademico 2002-2003.

Premio speciale Sigillo Monsilicis a Mario Rigoni STERN

Nella memoria collettiva si sono radicati due libri dovuti non a letterati affermati, ma ad autori alla loro prima opera, che ricordavano con parole scarne, ma molto efficaci, due tragedie della seconda guerra mondiale: Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi sulla vita subumana nei campi di concentramento e Il sergente della neve (1953) di Mario Rigoni Stern sulla sfortunata campagna di Russia delle truppe italiane. Il successo ottenuto da quest’ultimo, e tuttora perdurante, avrebbe potuto indurlo a seguire il mestiere dell’uomo di lettere, ma, da montanaro e da alpino, non si sentì di fare il salto (meglio impiegato al catasto di Asiago che letterato a Torino o Milano) e passerà una decina d’anni prima che si decidesse a pubblicare un altro libro apparentemente di tutt’altro genere, Il bosco degli urogalli (1962), i bellissimi galli cedroni. Qui si racconta non più di guerra, ma di montagne e di boschi, di caccia e di cani e di volpi, di un mondo appartato e pur ricco di risorse e di umanità. I protagonisti sono gli stessi, gli umili che più di altri affrontano tutte le guerre e tutti i disagi del dopoguerra. Ma la continuità del filo narrativo è evidente fin dal primo racconto, dove è ricordato il difficile reinserimento di un reduce di guerra. Sono seguiti poi altri volumi, tutti ispirati da questi due grandi temi, ineludibili per un uomo come lui, che aveva vissuto intensamente di persona le esperienze nell’uno e nell’altro versante.

Rigoni Stern sembra indirizzare la sua esistenza da una parte verso il difficoltoso, l’ignoto da vincere, una nuova vita da conquistare, come avevano fatto gli eroi dei libri di avventure che aveva letto avidamente da ragazzo; dall’altro verso un silenzioso ritiro, dove l’ambiente aiuta non solo a ricordare, ma anche a meditare sul significato dell’operare di ognuno, di tutti quei personaggi che si stagliano nei suoi racconti, schivi e riservati, ma che non avevano segreti per lui, uno di loro. Per questo la sua scrittura può definirsi sostanzialmente dialettale, pensa in dialetto e si esprime in italiano, contrariamente di quanto avviene per tanti poeti dialettanti. Più di un critico, tra i più avveduti, ha intuito il sottofondo orale, la trasmissione in lunghe conversazioni con uomini dei suoi paesi di vicende quotidiane, tradotte in una lingua piana, tanto che i suoi volumi hanno avuto la sorte di essere giustamente consigliati, in apposite edizioni, per le scuole.

Per questo una larga parte della sua produzione è a stento definibile letteraria, nel senso usuale dell’aggettivo, per l’assenza in essa di sottili artifizi e di consapevoli tattiche di richiamo. Ed è la parte che riguarda il suo Altopiano (un intero libretto è dedicato agli alberi della montagna), conosciuto a fondo fin da fanciullo, dove ama vivere. Dobbiamo a lui se la numerosa schiera dei suoi lettori ha imparato a conoscere la cultura montanara di un angolo appartato del Veneto dalle molte virtù e dalle molte ritrosie, descritto in tutti i suoi aspetti, talvolta non solo sconosciuti, ma anche insospettabili.